Simbolo dell’incuria a cui è abbandonata la Capitale, perla archeologica e non solo, è ridotto a “nudo anacronismo” ricoperto da baracche e rifiuti
Va da sé che in una qualsiasi capitale, occidentale o orientale, che avesse almeno un po’ a cuore la propria storia e allo stesso tempo un occhio al marketing culturale e all’indotto turistico che un sito del genere può sviluppare – il Monte dei Cocci sarebbe valorizzato e fruibile. Non Roma
Il Monte dei Cocci o Monte Testaccio o Dolium in latino, è nato e cresciuto lungo il corso di tre secoli tra il I e il III d.C. dall’accumularsi di cocci di anfore d’olio scaricate al Porto dell’Emporio a Roma, nella zona dell’attuale rione Testaccio, e provenienti dalla regione dell’Andalusia in Spagna. Il Monte dà nome al rione Testaccio dove sorge. La parola testae in latino significa infatti “coccio”.Attraverso saggi archeologici, tuttora attivi dalla fine dell’Ottocento a causa della vastità dell’area ancora da esaminare, è stato possibile ricostruire parte della storia commerciale dell’Impero romano. È un monumento unico al mondo ed è allo stesso tempo un monumento naturale e un documento per gli studiosi di varie discipline, non solo archeologiche ma anche botaniche per il particolare microclima e soprattutto per specie antiche di ulivi e di tracce organiche millenarie. Negli anni ha attratto l’attenzione di molti archeologi, primo tra tutti quella del tedesco Heinrich Dressel (1845-1920) che nel 1873 dopo una forte tempesta che colpì la zona di Testaccio, rinvenne sulla sommità del Monte il primo titulus pinctus su un coccio da anfora: da li iniziarono i suoi studi e la catalogazione delle anfore romane. Successivamente fu lo spagnolo Rodriguez Almeida e in generale l’Università di Barcellona, con i ricercatori della facoltà di Archeologia, a prendere in cura gli scavi e gli studi sul Monte.
Va da sé che in una qualsiasi capitale, occidentale o orientale, che avesse almeno un po’ a cuore la propria storia e allo stesso tempo un occhio al marketing culturale e all’indotto turistico che un sito del genere può sviluppare – il Monte dei Cocci sarebbe valorizzato e fruibile.
Avrebbe già dovuto esserlo negli anni Trenta a cura del grande architetto paesaggista De Vico.
Raffaele De Vico, viale dei Settanta nel Parco della Rimembranza a Villa Glori. Foto Vasari, 1924.
Raffaele De Vico (1881-1969) è stato uno dei maggiori architetti e paesaggisti del Novecento ed ha operato soprattutto a Roma sotto il regime fascista. Recentemente il Museo di Roma a Palazzo Braschi ha dedicato ai suoi progetti una mostra completa anche di fonti documentarie come questo articolo a sua firma uscito su Il Giornale d’Italia il 18 febbraio 1931 dal titolo Anche il Testaccio avrà attorno al suo Monte una ricca e pittoresca zona di verde. Oasi di riposo nel cuore della città
Tra le moderne opere sorte intensivamente in quella che fu già desolata plaga trasteverina il Monte Testaccio era rimasto come un nudo anacronismo ricoperto qui e la della miseria di sgangherata baracche, di qualche magazzino, ritrovo di ragazzaglia, che aveva libero campo alle sue intemperanti scorribande. Occorreva dunque sistemare anche quest’angolo di Roma e l’occasione si offriva propizia per il programma che il Governatore Principe Boncompagni va eseguendo provvidamente con ritmo accelerato e sicuro, programma che tende a dotare di tutti i quartieri di un giardino sufficientemente vasto per accogliervi i bambini che han tanto bisogno di tranquillità e di aria pura. Oltre il giardino il Testaccio vedrà finalmente disciplinato il suo “monte” come lo ebbe il quartiere dell’Aniene, ove lo scapigliato e storico Monte Sacro è divenuto oggi un magnifico parco modello curato con molta diligenza. Si è veduto di qual favore goda – e non potrebbe essere diversamente – il parco Virgiliano, inaugurato da pochi mesi e che è sempre frequentatissimo. Fra breve anche il Testaccio avrà la sua bella e artistica cornice di verde che completerà il disegno del vasto giardino centrale. Intanto si sono iniziati i lavori per l’ampliamento del parco che occuperà quella vasta zona di terreno, ora abbandonata, della superficie di circa 40,000 mq, che si estende fra la via Zabaglia, la cinta Aureliana, il Mattatoio e il caratteristico monte. Il giardino dalle linee semplici è intonato alla località: con piazzali – di cui uno nella parte centrale- della superficie di mq. 1600, consentirà ai bambini di divertirsi. Sarà dotato di illuminazione elettrica e di fontanelle per bere. La flora arborea è quasi esclusivamente rappresentata da pini: cespugli diversi allieteranno con la loro fioritura e col profumo dei loro fiori il nuovo parco. Due nuove rampe consentiranno di accedere sul Monte Testaccio, sulla cui sommità un vasto piazzale ombreggiato da elci offrirà un magnifico angolo tranquillo e bene areato, ricercato specialmente nelle calde sere d’estate.
Come si presenta la situazione di Monte Testaccio, ma soprattutto delle sue pendici (di cui si è persa totalmente visibilità per l’ammassarsi nei decenni di lamiere, tubi di scarico, condizionatori d’aria, dehors, locali senza alcuna uscita di sicurezza che si vanno ad incuneare per molti metri all’interno del monte)?
Il Monte dei Cocci si presenta ancora come “un nudo anacronismo ricoperto qui e là della miseria di sgangherata baracche, di qualche magazzino, ritrovo di ragazzaglia, che aveva libero campo alle sue intemperanti scorribande”.
Il “libero campo” è impedito da una cancellata posta da circa 25 anni. In Italia quando non si sa prendere una decisione, si fa presto: si mettono i cancelli e si chiude tutto.
L’associazione culturale Ottavo Colle ha lanciato una petizione sulla piattaforma www.change.org raccogliendo più di 5.300 firme (sono interessanti i commenti) e si può leggere qui
Non si chiede una apertura sconsiderata. Si chiede una turnazione utilizzando anche volontari, per aprire il cancello una volta alla settimana per permettere alle associazioni culturali di organizzare delle visite e ai tantissimi stranieri in transito a Testaccio, e ai romani, di visitarlo.
Chi scrive è stata ricevuta più volte in Municipio solo per assistere ad una triste operazione di scaricabarile: “la competenza è della Sovrintendenza Archeologica Comunale…di quella Statale…della Società Zetema…del Comune di Roma…”e così via.
foto di Iacopo Marini.
Gli anni passano, il povero Monte buio e spennacchiato è totalmente seppellito dai locali e i tanti visitatori che l’associazione riesce a fare entrare, rimangono stupiti da tanta meraviglia. Lo spettacolo dell’archeologia industriale romana è sotto i loro occhi. Questo, a dispetto delle complicatissime procedure per chiedere al Comune di Roma l’autorizzazione ad aprirlo, esistono solo 4 date all’anno nelle quali si può chiamare un numero di telefono per farlo…inutile dire che è sempre occupato e si passano le ore in attesa.
Ma a nessuna istituzione – in nome di una “tutela” che ormai dopo anni di battaglie e di attese inutili si può leggere anche come inerzia di azione affinché nulla cambi – sembra interessare nulla.
Attendiamo fiduciosi tra qualche anno un colosso dell’associazionismo, o un brand di qualche tipo che fiuterà l’affare e ci aprirà una bella “pinseria” romana per friggere panini all’ombra delle antiche anfore.
Povera Roma!